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Il futuro del lavoro e il lavoro del futuro.

Ho visto il futuro del lavoro. La buona notizia è che i robot non prenderanno il nostro posto. Quella cattiva è che non stiamo facendo abbastanza affinché ciò accada. Le due notizie sono contenute nel più atteso rapporto in materia: The Future of Work, frutto di due anni di lavoro di una task force di economisti e tecnologi del MIT di Boston.

La missione era complicata e importante: trovare una risposta non emotiva, e quindi basata sui dati, sugli effetti della rivoluzione industriale in corso, quella digitale.

Nel 2013 uno studio dell’università di Oxford aveva concluso che quasi la metà di tutti i mestieri era a rischio di automazione: praticamente gli unici al sicuro erano il prete e il dentista. Poi si era scoperto che anche la santa messa e la confessione si potevano impartire via web, e molti hanno iniziato ad alzare le barricate: vade retro robot. Comprensibile. Ma anche sensato?

Il rapporto del MIT (92 pagine e alcuni grafici molto interessanti) afferma definitivamente di no. Quelli che parlano di una imminente, inevitabile “fine del lavoro” dicono una cosa smentita dai fatti: negli ultimi 130 anni negli Stati Uniti il numero di persone al lavoro è aumentato sempre; è aumentato al tempo della meccanizzazione, e adesso, con l’automazione dei robot e del digitale. Ma se l’automazione consente ad un software di “risparmiare lavoro”, come fa il lavoro ad aumentare? Per diversi fattori legati alla produttività e alla crescita dell’economia, ma forse il più importante è la creazione di nuovi, diversi, posti di lavoro. La maggior parte dei lavori che facciamo oggi nel 1940 neanche esistevano: il settore dei computer, delle energie rinnovabili, la televisione di massa, semplicemente non esistevano e neppure i relativi mestieri. Epperò se il saldo finale è positivo, la transizione va gestita: perché ci sono interi settori che hanno perso occupati – tipo l’agricoltura prima, le fabbriche poi -; e perché l’automazione tende a polarizzare i salari, vuol dire che guadagnano di più quelli che hanno in tasca una laurea o un master, che dirigono i robot; di meno tutti gli altri, che invece prendono ordini da un software (tipo i fattorini di Amazon).

La gestione di questa transizione spetta alla politica che ha due compiti fondamentali: difendere il lavoro esistente ma senza frenare l’innovazione; e impegnarsi ad aggiornare le competenze di chi ha un lavoro e di chi lo cerca. Ma questa è la brutta notizia: la verità è che non stiamo facendo abbastanza.

[Repubblica del 25 Novembre 2020]